23 maggio, sciopero nazionale dell’industria: riprendiamoci salari, diritti, futuro. No alla guerra, no al riarmo: i soldi vanno messi sul lavoro
Il 23 maggio l’Unione Sindacale di Base ha indetto 8 ore di sciopero nazionale per tutti i turni di lavoro nel settore industriale. Non è uno sciopero rituale. Non è uno sciopero simbolico. È una chiamata alla lotta, in un momento in cui tutto ci dice di stare zitti, di piegare la testa, di accettare l’ennesima rinuncia.
USB non ci sta. E rilancia.
Al centro ci sono tre rivendicazioni semplici e radicali: salario, orario, sicurezza. Tre questioni che si tengono insieme e che sono la cartina di tornasole della condizione reale delle lavoratrici e dei lavoratori in questo paese.
Partiamo dal salario. Nel chimico-farmaceutico è stato appena firmato un rinnovo contrattuale che conferma purtroppo un modello peggiorativo: aumenti fermi sotto l’inflazione reale e un sistema di calcolo che non recupera la perdita di potere d’acquisto accumulata negli anni. Nel metalmeccanico la trattativa è ancora aperta, ma Federmeccanica sta utilizzando le regole già sottoscritte nei precedenti rinnovi, che prevedono un meccanismo di determinazione “ex post” degli aumenti salariali. Questo significa che non ci sono più aumenti certi garantiti a contratto, ma solo un eventuale recupero da definire a posteriori, una modalità inaccettabile che di fatto azzera le certezze e i diritti dei lavoratori. È la conferma che il modello contrattuale concertativo non regge più e va superato con un nuovo paradigma basato su salari reali e contratti che valorizzino davvero il lavoro.
Poi c’è l’orario di lavoro. In un’epoca in cui la produttività aumenta, la tecnologia avanza, e la disoccupazione cresce, continuare a lavorare 40 ore a settimana è una forma di barbarie sociale. Chiediamo la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario: non è solo una rivendicazione sindacale, è una battaglia per la redistribuzione del tempo, della vita, della dignità.
E c’è la questione della sicurezza, drammaticamente tornata sulle prime pagine con le ultime stragi sui luoghi di lavoro. Ma la verità è che ogni giorno si muore e ci si infortuna in silenzio, nella normalità dell’organizzazione aziendale. Fermare questa carneficina vuol dire dare potere reale ai lavoratori, vuol dire che chi produce la ricchezza deve poter dire la sua su ritmi, turni, procedure, manutenzioni, mezzi. Altro che patentini e protocolli scritti a tavolino: la sicurezza è questione di potere nei luoghi di lavoro.
A tutto questo si aggiunge un elemento decisivo: la crisi industriale. Un pezzo dopo l’altro, il sistema produttivo italiano si sta sgretolando. Automotive, elettronica, logistica, siderurgia, chimico-farmaceutico, aerospazio, elettrodomestico… non passa settimana senza un nuovo tavolo di crisi, senza l’annuncio di un nuovo piano di tagli, cessioni, delocalizzazioni.
USB è dentro queste crisi, le segue direttamente, le affronta con i lavoratori e le lavoratrici coinvolte. Da Acciaierie d’Italia, dove rivendichiamo con forza la nazionalizzazione del polo siderurgico, a Stellantis, dove lo smantellamento dell’automotive italiano è ormai un dato di fatto e l’unica via d’uscita è ripensare l’intero settore come strategico e pubblico. Da Jabil a Softlab, passando per Flextronics, JSW Piombino, fino a STMicroelectronics, travolta da migliaia di esuberi mascherati da prepensionamenti, da un modello aziendale che scarica sulle lavoratrici e sui lavoratori il prezzo della ristrutturazione.
Non è un’emergenza isolata, è una strategia industriale fallita. Frammentata, subalterna, senza visione. Dove il pubblico interviene solo per finanziare i privati, e mai per indirizzare o governare la transizione. Per questo diciamo che una crisi straordinaria va affrontata con risposte straordinarie: non con i soliti tavoli, ma con piani pubblici di rilancio, con investimenti mirati, con una politica industriale che metta l’occupazione, la transizione ambientale e la sovranità produttiva al centro.
E poi c’è il contesto globale. Mentre i lavoratori perdono il lavoro, lo stipendio, la casa, l’Unione Europea stanzia 800 miliardi per RearmEU, il piano per la militarizzazione dell’economia. Si spingono le aziende a convertire le produzioni civili in produzioni militari, si rilancia la corsa agli armamenti mentre i servizi pubblici crollano. Non c’è un euro per la sanità, ma si moltiplicano i fondi per le armi. È una follia. È una vergogna. È una priorità da rovesciare.
Scioperiamo anche per la Palestina. Perché la strage in corso a Gaza ci riguarda. Perché in quelle bombe c’è anche la complicità dell’Italia e delle sue industrie. Perché non accettiamo che i profitti di Leonardo valgano più delle vite dei bambini palestinesi.
Il 23 maggio scioperiamo per tutto questo. Perché la nostra vita non può essere ridotta a una variabile dipendente del profitto. Perché il lavoro non si svende, si difende. Perché non ci rassegniamo al declino, ma vogliamo riprenderci il futuro.
USB Industria