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Cosa ci insegna la sconfitta dei referendum

Roma -

Senza troppi giri di parole, occorre prendere atto della sconfitta. Con poco meno del 30% di affluenza alle urne è stata affossata la speranza di vedere neutralizzate alcune parti del Jobs Act e di invertire la rotta alle leggi che hanno fatto dilagare la precarietà e abbassato il livello dei diritti.

Lo strumento del referendum non ha mai funzionato sui temi del lavoro e ancor meno funziona oggi, in un contesto dove una gran parte dei settori popolari ha perso la speranza di poter cambiare le cose a causa delle tante delusioni subite.

La Cgil, che ha promosso i 4 referendum sul lavoro, si è preoccupata di portare avanti una campagna identitaria, ha provato a rifarsi il maquillage, e non ha tenuto conto della enorme difficoltà di portare a votare più di 26 milioni di italiani. Con l’evidente conseguenza di trascinarci tutti a raccogliere l’ennesima sconfitta e di regalare al governo delle destre una boccata di ossigeno e un’occasione di rinsaldamento interno.

Le componenti politiche del campo largo hanno sostenuto i 5 quesiti referendari in un’ottica elettorale e con l’obiettivo di regolare i conti dentro il centrosinistra. Ora fanno il confronto tra chi ha votato ai referendum e l’elettorato di centrodestra e puntano a gestire i 14 milioni di persone che sono andate a votare, attribuendosele come loro elettorato.

A questo gioco l’USB ha provato a sottrarsi dando vita ad un Comitato referendario indipendente, sostenendo le ragioni dei 5 SI, ma tenendosi a debita distanza dalle logiche strumentali dei promotori. Questa scelta è stata giusta sia perché sarebbe un grave errore confondersi con chi porta sulle proprie spalle tante delle responsabilità dell’abbassamento delle tutele e dei diritti che soffriamo in questo paese, e sia perché sarebbe ancora più grave confidare nella Cgil e nei suoi alleati politici per una svolta nelle politiche del lavoro e contro lo sfruttamento.

Del resto, basta guardare alla stagione contrattuale appena conclusa o ancora aperta in diverse categorie per accorgersi che niente è cambiato nella logica delle grandi organizzazioni confederali, né in tema di salario, né in tema di diritti e di precarietà, né in tema di democrazia. Quella che è stata condotta sui referendum è stata solo una operazione di immagine che non trova alcun riscontro nelle piattaforme sindacali e nell’azione sui posti di lavoro.

E questo è probabilmente il vero motivo per cui milioni di lavoratori e lavoratrici non hanno creduto alla possibilità del cambiamento attraverso i referendum promossi dalla Cgil. La Cgil non ha più la credibilità per proporsi alla guida di un processo di trasformazione se le chiacchiere di Landini in tv vengono quotidianamente smentite dall’agire concreto di un sindacato abituato alla concertazione più che al conflitto. Stanchi di essere presi in giro, in tanti sono rimasti indifferenti alla proposta dei referendum.

Anche se questa sconfitta, volenti e nolenti coinvolge anche noi, per il clima certamente non positivo che produce tra i lavoratori, dobbiamo saperne raccogliere gli insegnamenti. Innanzitutto la necessità di rafforzare il percorso di organizzazione indipendente: se vogliamo ricostruire un movimento dei lavoratori che possa invertire la rotta dobbiamo sapere riconoscere e smascherare ogni tentativo di rifarsi l’immagine da parte dei sindacati concertativi e dei loro alleati politici. In secondo luogo, dobbiamo sapere che la partita si gioca sul campo, sui posti di lavoro, nelle piazze, sul territorio, ricostruendo tra le persone in carne ed ossa la speranza del cambiamento collettivo, senza affidarsi a scorciatoie che oggi sono impraticabili e controproducenti. infine, che la lotta è oggi e non è procrastinabile perché stanno trascinando il paese dentro un’economia di guerra gravida di rischi e conseguenze imprevedibili e drammatiche.

Per questo già il 12 occorre sostenere l’iniziativa dei migranti in tante piazze d’Italia e poi il 20 lo sciopero generale e il 21 la manifestazione nazionale a Roma da piazza Vittorio. Per non dare tregua al governo Meloni. Per il salario e contro il riarmo.