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Lavoro agricolo, raccoglitori di ciliegie “usa e getta” alla Selva Maggiore (F.lli Romagnoli) di Pianoro

Nazionale -

Rendiamo pubblica la testimonianza di alcuni lavoratori che nella fase di emergenza sono stati impiegati in agricoltura, in una delle più grandi e importanti aziende del bolognese, l’Azienda agricola Selva Maggiore di Pianoro, facente capo alla F.lli Romagnoli.

 

“Siamo lavoratrici precarie. Siamo lavoratori stagionali. Lavoriamo nella ristorazione, nella cultura, nell'agricoltura. Siamo studentesse. Siamo padri di famiglia. Siamo migranti e richiedenti asilo. L'11 marzo le nostre vite sono state pesantemente colpite dall'emergenza Covid-19: abbiamo perso il lavoro, pagato l'affitto con difficoltà, ci siamo ritrovati in una situazione ancora più precaria di prima.

 

La chiamata del governo e del comparto agricolo per trovare i lavoratori necessari alle raccolte stagionali è arrivata dalle prime settimane dell’emergenza. L'agricoltura – presentata come settore innovativo ma ammantato di fascino bucolico - non poteva fare a meno della massa di braccianti. Abbiamo sentito parlare ipocritamente di “professionisti” delle raccolte, delle vendemmie, del bracciantato. In realtà, l’agricoltura è un settore in cui esistono ancora schiavitù e feroce sfruttamento, in cui l’abbassamento dei costi, l’abolizione dei diritti e il caporalato colpiscono soprattutto le persone più vulnerabili, come gli invisibili, i sans papier e i lavoratori stranieri.

 

Abbiamo spulciato annunci online, ci siamo registrati alle agenzie regionali, abbiamo chiamato consorzi agrari, associazioni di produttori e uffici per il lavoro. Ai primi di maggio abbiamo trovato l'annuncio di un'agenzia interinale, la Openjobmetis di Imola: "...ricerca per Addetti alla Raccolta Ciliegie...azienda agricola che ha sede e campi nel comune di PIANORO (BO)...da inizio Giugno a metà luglio circa (con possibilità di proroga)".

 

 

Abbiamo chiamato l'agenzia, ci sottolineano la massima serietà dell’azienda: “Qui si parla di gente quotata in borsa”. Abbiamo lasciato i dati e i CV.  La società ci ha contattati. Una settimana più tardi, nella sede della società, un signore elegante teneva un colloquio con ognuno di noi e ribadiva che l'impegno richiesto era di 35-40 giornate di lavoro, 39 ore a settimana, più eventuali proroghe. Presenti anche una delle titolari della società ed una segretaria. I tre facevano appello alla nostra serietà e al nostro impegno nel rispettare il mese di lavoro previsto.

 

Pochi giorni dopo, nella sede dell’agenzia interinale, ci viene presentato un contratto che copre i primi dieci giorni di raccolta, a partire dal 25 maggio, giustificato come periodo di prova. Il resto saranno proroghe, ci dicono. Altri lavoratori vengono contrattualizzati per una ventina di giorni mentre quelli assunti direttamente dall'azienda hanno il termine al 30 giugno.

 

Il primo giugno, a sette giorni dall’inizio della raccolta, vengono lasciate a casa tre persone con contratto interinale e, ci sembra di capire, altre tre persone contrattualizzate dall'azienda. Due giorni dopo, al termine del lavoro, altri lavoratori ricevono l’avviso che non gli verrà prorogato il contratto. L’8 giugno vengono lasciate a casa altre cinque persone sotto contratto diretto con la società. Tutto senza avvertimenti o comunicazioni preventive, le spiegazioni sono contrastanti e fumose.

 

Veniamo a sapere che la raccolta prosegue in un ambiente di lavoro sempre più pesante, in cui i lavoratori vengono minacciati di licenziamento e trattati irrispettosamente, in una catena di prepotenze che parte dai vertici dell’azienda e arriva fino nei campi. “Ciliegina” sulla torta: nuovi lavoratori vengono chiamati a raccogliere tra i filari.

 

Tra di noi c’è chi ha rifiutato altre offerte di lavoro e chi si è organizzato per rispettare l’impegno richiesto per la stagione, contando su questo ingaggio per tirare un sospiro di sollievo. Siamo stati ingannati e trattati con logiche padronali, prepotenti ed irrispettose, sia in termini personali sia lavorativi. I più decidono di sciogliere il contratto, piuttosto che rimanere in sospeso senza poter effettivamente lavorare. Ciononostante, l’azienda comunica di non licenziarli, ma di lasciare aperto il contratto, senza di fatto chiamare i dipendenti a lavorare.

 

Abbiamo già cercato diverse volte di avere un confronto, delle spiegazioni, ottenendo risposte poco chiare e discordanti. Ora vogliamo denunciare la nostra storia, dedicandola a chi parla di agricoltura con ipocrisia e retorica, perché sia di avvertimento a chi si trova e troverà nella nostra situazione. Dietro alla parola flessibilità, che troppo spesso abbiamo sentito usare, si nascondono precarietà, ricatti e assenza di tutele. Evidentemente c’è chi si aspettava, anche con i sostituti dei braccianti storici, la stessa flessibilità, disponibilità e ricattabilità imposte a schiere di invisibili.”

 

Come USB abbiamo dimostrato, anche con lo sciopero dei braccianti del 21 maggio, che sul lavoro agricolo viene fatta solo retorica, per nascondere sfruttamento, ricatto e mancanza di tutele. Oggi insieme ai lavoratori lasciati a casa, siamo andati davanti all'Azienda agricola Selva Maggiore per raccontare cosa è successo e per portare a conoscenza dei braccianti i loro diritti e la possibilità di organizzarsi sindacalmente.

 

Nonostante la retorica di istituzioni e imprenditori agricoli, la vicenda di Pianoro testimonia che anche la chiamata ai campi legata all’emergenza coronavirus nasconde una realtà brutale fin qui vissuta sulla propria pelle dalla stragrande maggioranza dei braccianti, non soltanto migranti, ma anche italiani. L’assenza di diritti e di tutele per i lavoratori agricoli viene sfruttata cinicamente per giustificare i licenziamenti e per lasciare a casa dopo pochi giorni quei dipendenti che componevano corposi organici e ai quali cui erano state garantite almeno 35 giornate di lavoro.

 

USB Lavoro Agricolo