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Legge di bilancio 2026: austerità e guerra

Roma -

Con sinistro tempismo, il 2 ottobre, ovvero prima del riuscitissimo sciopero generale del 3 ottobre e dell’oceanica manifestazione del sabato, il Consiglio dei Ministri ha varato il Documento Programmatico di Finanza Pubblica, atto propedeutico alla presentazione della manovra finanziaria valida per il prossimo triennio (2025/2028): si tratta di un documento che delinea, alla luce dei conti pubblici e delle previsioni macroeconomiche, la cornice finanziaria entro la quale si costruirà la prossima manovra finanziaria che dovrà essere presentata in Parlamento il 20 ottobre.

Districandosi tra previsioni e alchimie contabili quello che appare lampante è un quadro totalmente assorbito dal combinato disposto Patto di stabilità europeo, con l’immancabile riduzione del rapporto deficit Pil, ed incremento vertiginoso delle spese militari per rispettare gli impegni assunti con il piano ReArm Europe e con la Nato: spese militari naturalmente scomputate dal Patto di stabilità, quello che al contrario andrebbe fatto per le spese sociali.

Lungo queste direttrici si profila una manovra nella quale la spesa pubblica sarà tutta orientata a delineare una economia armata all’interno della quale alla vertiginosa crescita della spesa in armamenti fa da contraltare la riduzione della spesa sociale per effetto del cappio imposto dai vincoli europei.

Un cocktail micidiale che produce la palese conversione della nostra economia tutta in chiave bellica delineando un modello di Stato non più indirizzato ad assicurare welfare e sevizi alla cittadinanza ma proiettato inequivocabilmente verso la logica della guerra e del riarmo.

Tradotto in cifre il raggiungimento della spesa militare al 2,5% del Pil entro il 2028 determina, secondo le stime di Milex Osservatorio sulle spese militari, un esborso aggiuntivo di 23 miliardi così articolate: 3,5 miliardi di spesa addizionale nel 2026, 7 miliardi nel 2027 e oltre 12 miliardi nel 2028 di differenziale sulla spesa militare per quanto riguarda il 2028.

Dentro un quadro così palesemente condizionato dal binomio economia di guerra e politiche di austerità, persino le poche misure tampone che il governo ha intenzione di mettere in campo per strizzare l’occhio al ceto medio e che, naturalmente, si guardano bene dal toccare profitti e rendite ed eludono la drammatica emergenza salariale, fanno fatica a trovare spazio.

Si prevedono infatti interventi per 16 miliardi, dei quali 6,5 proverrebbero delle maggiori entrate fiscali e circa 10 dalla revisione delle spese dei dicasteri che, tradotto, significa nuovi tagli alla spesa sociale.

Anche quest’anno il cuore della manovra dovrebbe essere, quindi, il capitolo fiscale con la riduzione di due punti dell’Irpef dal 35% al 33% per i redditi da 28.000 euro a 50.000 euro (non più 60.000 euro perché costerebbe troppo). Una simulazione da parte del centro studi di Unimpresa ha rapidamente fatto i conti di quella misura che nelle intenzioni del governo dovrebbe dare ossigeno al c.d. ceto medio: 3 euro al mese per chi guadagna 30.000 euro, 20 euro al mese per chi ne guadagna 40.000 e 37 euro al mese per chi ne guadagna 50.000.

E mentre come sempre si elude il vero tema che dovrebbe ispirare una riforma fiscale orientata all’equità sociale, ovvero il ripristino di un sistema realmente progressivo, continua e anzi dovrebbe divenire strutturale il regime di favore introdotto nei confronti delle imprese con la c.d. Ires premiale già introdotta con la legge di bilancio 2025: la riduzione dell’aliquota dal 24 al 20% nei confronti delle aziende che decidono di non distribuire gli utili, ma di investirne una parte per finalità produttive e per aumentare l’occupazione.

Sembra tramontata invece la proposta (indecente) di elevare ancora (da 85.000 a 100.000 euro) la flat tax nei confronti dei redditi autonomi: posto che qualsiasi tassa piatta è un colpo inferto alla progressività dell’imposta, il continuo innalzamento della soglia, addirittura a 100.000 euro, interesserebbe redditi mensili medio/alti di circa 4000/4500 euro, nulla a che fare con quel mondo delle false partite Iva o pseudo autonomi alla quale la misura era inizialmente rivolta.

Sulle pensioni continua la politica sottrattiva, in continuità con i precedenti governi. Le esigenze di bilancio l’impegno sul riarmo impediranno la sterilizzazione dell’allungamento dei periodi di lavoro attraverso l’aumento dell’aspettativa di vita che dal 2027 riprenderà a correre, la rivalutazione delle pensioni non consentirà alcun recupero dell’aumento del costo della vita, e le pensioni minime rimarranno bloccate a poco più di 600 euro al mese.

Infine, sul fronte del rinnovo dei contratti pubblici, dopo la conclusione in due comparti di contrattazione della tornata contrattuale 2022/2024 che ha registrato una secca perdita del potere d’acquisto dei salari del 10%, si profila, anche per le tornate successive, aumenti contrattuali già predefiniti che rischiano concretamente di essere al di sotto dell’inflazione e comunque non consentiranno di recuperare quanto perso nel triennio 2022/2024 e nel blocco che ha già interessato il settore pubblico per due stagioni contrattuali.

Niente o misure risibili sulla sanità dopo il progressivo e inesorabile depauperamento del Servizio sanitario nazionale, nessuna forma di sostegno al reddito a partire dall’introduzione di un salario minimo a 12 euro l’ora, nessun piano di rilancio del settore industriale, nessuna tassazione delle grandi ricchezze e nessun investimento sulle politiche sociali e abitative.

Verificheremo nei prossimi giorni in maniera più puntuale quali misure saranno realmente inserite nella legge di bilancio, ma non vi è alcun dubbio che le scelte guerrafondaie operate dal nostro governo ricadranno, come sempre accaduto, sulla pelle di lavoratrici e lavoratori.

Trasformare quella marea sociale che ha invaso le piazze del 22 settembre e del 3 e 4 ottobre in un progetto di trasformazione del paese che metta al centro e leghi l’opposizione alla guerra e il disarmo alle questioni sociali è il salto di qualità necessario da compiere in un autunno che già si annuncia molto caldo.