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Argomento:

Tirate fuori i soldi, vogliamo quello che ci spetta

Roma -

Ora che anche autorevoli istituti come l’ISTAT e la Banca d’Italia hanno chiarito che la nuova legge di Bilancio non servirà a proteggere il nostro potere d’acquisto e che gli interventi sull’IRPEF andranno a beneficio delle classi di reddito più alte, cioè quelle con redditi pari o superiori ai 50mila euro annui, è evidente che il “re è nudo”. La perdita secca di potere d’acquisto dei salari per i dipendenti pubblici è certificata attorno all’11%, essendo l’inflazione calcolata attorno al 17% per gli anni relativi al rinnovo dei contratti e gli aumenti inferiori al 6%. Per quelle categorie che i rinnovi non li hanno avuti la perdita è ancora più forte, per alcuni settori che hanno avuto rinnovi di poco superiori al 6% siamo comunque di fronte ad una perdita secca del 10% del salario.

Non c’era bisogno che ce lo chiarissero ancora, ma sentirselo ripetere con tanta precisione fa il suo effetto.

La professione più diffusa, davanti a questi dati inequivocabili, è quella del diffondersi nell’analisi delle cause che hanno portato a questa situazione. Ma al punto in cui siamo, francamente, ci sembra una noiosa perdita di tempo di fronte all’assodata dimostrazione che non c’è alcuna volontà politica di ridurre le disuguaglianze. Al di là di tutte le valutazioni più o meno sofisticate sul modello di contrattazione, sulla perdita di competitività del sistema, sulla produttività del lavoro e via discorrendo, ciò che balza agli occhi è che è stata prodotta una impressionante redistribuzione di risorse economiche dalle classi che meno avevano ai ceti più ricchi e che questa politica prosegue indisturbata. Basti pensare agli straordinari profitti ottenuti dal sistema bancario che negli ultimi tre anni, 2022-2024, ha racimolato la bellezza di 112 miliardi di euro netti, finiti per lo più nelle casse di grandi azionisti come BlackRock e Vanguard. E tanto per non dimenticarcelo, il fondo investimenti BlackRock ha già acquistato negli anni scorsi la rete fissa di TelecomItalia per 22 miliardi, è dentro grandi aziende come ENI, Enel, Snam e Poste, ovviamente dentro Leonardo e punta da tempo alle Ferrovie dello Stato. La redistribuzione, cioè, non produce soltanto un impoverimento diffuso ma anche uno spostamento di potere nelle mani di pochi grandi fondi finanziari, per lo più stranieri, che finiscono per governare la nostra società.

La questione vera che abbiamo davanti pertanto è cosa occorre fare per recuperare il potere d’acquisto perduto, per quali obiettivi battersi per fermare l’impoverimento e il conseguente esproprio di risorse e di sovranità che sta subendo l’intero Paese.

I fronti di lotta sono almeno tre: il fronte dei redditi, quindi innanzitutto i salari e le pensioni, il fronte fiscale, quindi le tasse sulle banche, le grandi imprese e i patrimoni dei ceti ricchi, e infine il fronte delle tariffe dei servizi e dei prezzi dei beni di prima necessità, compresi gli affitti degli alloggi. Da come ci si posiziona rispetto a questi temi si può capire quali interessi difendono i vari soggetti in campo e quindi come poter immaginare l’arco delle alleanze sociali e politiche.

Sul fronte dei redditi, l’obiettivo dei 2000 euro come salario minimo, da veder riconosciuto nei minimi tabellari di ogni contratto, corrisponde ad un salario dignitoso, riconosciuto da enti internazionali e in linea con quanto detta l’articolo 36 della nostra Costituzione. I contratti nazionali dovrebbero puntare a raggiungere questo obiettivo, sul quale poi riparametrare tutti gli altri livelli, e comunque rifiutare soluzioni retributive che neanche reggano il passo con l’inflazione. La reintroduzione della scala mobile, o comunque di uno strumento di salvaguardia del potere d’acquisto, dovrebbe essere un obiettivo condiviso, così come l’impedimento di ogni ulteriore allungamento dell’età pensionabile e l’adeguamento delle pensioni minime ai 1500 euro.

Sul fronte fiscale, l’obiettivo di un ritorno alla progressività dell’imposta dovrebbe essere una scelta di civiltà, condivisa da tutto il fronte autenticamente progressista. Mettere al centro dell'agenda politica e rivendicativa la tassazione dei grandi patrimoni e dei vergognosi extra profitti, ottenuti dalle aziende che operano nel settore energetico e dal sistema bancario, è una condizione essenziale per reperire quelle decine di miliardi indispensabili per un riequilibrio delle enormi disuguaglianze sociali accumulate in questi anni.

E, infine, il calmieramento dei prezzi, attraverso l’eliminazione dell’IVA sui beni di prima necessità, il controllo delle tariffe sui servizi essenziali e una nuova legge sugli affitti, che rimetta una larga fetta della popolazione nella condizione di poter accedere al mercato degli alloggi e, contemporaneamente, tanta parte del sistema immobiliare di non rimanere colpevolmente inutilizzato (nonostante la fame di case che c’è in giro) sono le altre misure che dovrebbero completare una coerente politica di riequilibrio sociale.

Chi ipocritamente sostiene che questa è una piattaforma dei sogni finge di non vedere l’enorme accumulo di risorse che è avvenuto nel corso di questi anni ed anche la folle scelta di svincolare la spesa militare dalle regole europee sul bilancio pubblico. Questi obiettivi sono concreti, necessari ed anche possibili e costituiscono la condizione per tornare a sperare in un futuro migliore. Sono la base dello sciopero generale del 28 novembre e della manifestazione nazionale prevista a Roma per il giorno dopo. Sono il programma sul quale mettere in moto le enormi forze sociali e popolari che hanno preso parola contro il genocidio in Palestina e che ora reclamano la rottura dei rapporti con Israele. Sono lo stesso popolo. Siamo lo stesso popolo.